Dal n°2 anno 2022 de “La Nostra Penna”

A ricordo dell’Alpino Pietro Morandi

Pietro (all’anagrafe Pietrino) nasce a Pietrapiana, un piccolo borgo nei pressi di Reggello (FI), il 27 novembre 1922,secondo figlio di Cesare Morandi e Ida Torniai. Il padre è un taglialegna mentre la madre si occupa dei figli: Vanna, la figlia più grande nata un anno prima e Brunero classe 1928, il fratello più piccolo.

A Reggello Pietro frequenta le scuole elementari e raggiunge il diploma di quinta. Poco più che sedicenne si trasferisce presso una sorella della madre a Roma dove viene preso a lavorare in una autofficina, specializzandosi come meccanico tornitore ed imparando a guidare la motocicletta. L’esperienza romana dura un paio d’anni, poi Pietro torna nella casa di famiglia a Pietrapiana fregiandosi del soprannome con cui la gente del paese lo chiamava “il romano”.

Nel 1940, in primavera, l’Italia entra in guerra; nell’autunno-inverno dello stesso anno Pietro, che ha 18 anni, si arruola nel corpo degli Alpini. Terminato l’addestramento, nell’Aprile 1941, viene lasciato in congedo provvisorio in attesa di incarichi e rientra così in Toscana. Il 31Gennaio del 1942 arriva la chiamata alle armi in vista dell’invio dell’Armata Italiana in Russia (ARMIR) e date le sue abilità come meccanico viene inquadrato nel Corpo Alpino del Genio Militare, 4° Reggimento, 1° Battaglione artieri, 2° Compagnia, di stanza a Laivesin provincia di Bolzano.

Sei mesi dopo, nel luglio del 1942, in vista della mobilitazione, i reparti del Corpo d’Armata del Genio Alpino vengono dislocati tra Trento, Bolzano e Verona; Pietro con il 1° Battaglione si trova a Villafranca Veronese. Domenica 19 Luglio 1942 il convoglio ferroviario con a bordo il 1° Battaglione Artieri parte da Villafranca e il 20 Luglio intorno alle 14 effettua al Brennero l’ultima sosta in territorio italiano. Il Battaglione si compone di circa 750 uomini, ogni compagnia di circa 250 soldati: dell’intera compagnia di Pietro solo in 10 rivedranno il suolo italiano.

Il convoglio attraversa Austria, Germania, Polonia, Bielorussia e l’intera Ucraina fino ad arrivare nella regione di Donetsk Venerdì 31 Luglio. Il 1° Battaglione, proseguendo poi a piedi per 24 km a partire dalla città di Gorlovka, raggiunge la località di Junokomunarivsk’s dove comincia subito la sistemazione del quartier generale, dei locali adibiti ai comandi, dell’infermeria, dei magazzini e degli attendamenti per la truppa. La 2° compagnia di Pietro si occupa del riallacciamento di ponti, passerelle e strade interrotte a nord ovest della città. Ma poco più di un mese dopo, mercoledì 26 Agosto, viene ordinato il trasferimento di tutti i reparti del Genio Alpino a Woroschilowgrad (Luhans’k), 100 km più a nord-est: 4 marce consecutive da 25 km ciascuna, cosicché Il 30 agosto alle ore 6 il 1° scaglione con la 2°Compagnia di Pietro arriva a destinazione.

La permanenza del Battaglione a Woroschilowgrad è di nuovo di breve durata, il 10 settembre infatti il comandante Ten. Col. Gnecchi porta l’ordine di trasferimento con destinazione nei dintorni di Rossosch, non più inUcraina quindi ma ufficialmente in Russia, nell’Oblast di Voronez. I reparti partono a piedi sabato 12 settembre 1942 verso Podgornje dove giungono dopo cinque giorni e circa 200 km.

Sarà questa la loro sistemazione definitiva: il Battaglione e tutto il corpo d’Armata non si spingeranno mai più oltre in terra sovietica, da quella posizione potranno solo tornare indietro 4 mesi dopo. Per tutto il mese di settembre fino alla fine di Ottobre la 2° Compagnia di Pietro è impiegata inizialmente nella sistemazione delle baracche della truppa, poi nel riadeguamento dell’ospedale di Rossosch e nell’approvvigionamento di legna e materiali per l’inverno. Durante questo periodo, i soldati russi imbastiscono qualche sortita offensiva, i partigiani da dietro le linee organizzano sporadiche azioni di sabotaggio, ma nel complesso la stabilità del fronte e la sicurezza del contingente non viene realmente minacciata.

Il 5 Ottobre arriva in visita a Podgornje il segretario del partito fascista, il giovane Vidussoni, accompagnato dal Comandante dell’ARMIR, Gen. Gariboldi, nell’ambito di una visita generale all’armata per ispezionare e incoraggiare le truppe portando il saluto del Duce e doni dalla Madrepatria. Le riprese dell’Istituto Luce, da proiettare poi nei cinematografi in Italia, immortalano questo momento in cui il riflettore della storia ha consegnato le migliori, sebbene fugaci, immagini immortali del 1° Battaglione artieri e delle sue compagnie. I documenti ufficiali risultano irreperibili dalla fine di Ottobre ’42 in poi; tutti i registri sono andati perduti durante la ritirata: cosa accadde negli ultimi 2 mesi del 1942 e nel gennaio 1943 può solo essere ricostruito e in nessun modo potremo sapere con certezza come operò il 1° Battaglione e la 2° compagnia di Pietro.

Il 12 settembre, proprio mentre il Corpo d’Armata Alpino era in viaggio per Rossosch, Stalin programmava con i suoi generali l’operazione “Urano” di riconquista della sponda sinistra del Don e la disintegrazione del fronte occidentale tedesco e dei suoi alleati con l’obiettivo di accerchiare a sud le truppe tedesche assedianti Stalingrado. L’operazione si scatena il 19 Novembre, i russi travolgono l’armata rumena a sud dell’ARMIR ed effettivamente accerchiano i tedeschi. Il 16 dicembre ha il via l’operazione “Piccolo Saturno”, indirizzata contro italiani e ungheresi. Lo squilibrio di forze è pauroso non solo negli uomini ma soprattutto negli armamenti; in particolare i russi schierano 754 carri armati, gli italiani nemmeno 50. Il fronte cede quasi immediatamente e si divide in due, i russi penetrano aldilà del Don e procedono rapidamente ad accerchiare l’armata italiana.

Mentre i reparti di fanteria si ritirano aprendosi faticosamente la strada tra le ancora non consolidate colonne russe agli alpini viene ordinato di tenere la posizione, di difendere la riva del Don e coprire il ripiegamento rallentando le truppe sovietiche. Gli alpini resistono per un mese intero, mentre la tenaglia si sta chiudendo alle loro spalle: pur consapevoli di star finendo in trappola, gli uomini tengono la posizione. Alla fine, il 16 gennaio, quando ormai la sacca si è chiusa dietro di loro, anche a agli alpini è concessa la ritirata. Il 1°Battaglione e la 2° compagnia di Pietro dopo aver combattuto per mantenere il più possibile il controllo della città di Rossosch, sede del quartier generale del Corpo d’Armata Alpino, ripiegano verso nord-est sulla strada per Olikovatka.

Durante la ritirata Pietro così come tanti altri abbandona presso la città di Podgornje ogni equipaggiamento superfluo che potesse rallentarlo in quella che tutti sapevano ormai sarebbe stata una disperata corsa contro il tempo. La piastrina che si trovava sul suo zaino fu ritrovata soltanto nel novembre 1997 all’interno di una fossa comune con i resti dei caduti nella battaglia di Podgornje, in buona parte soldati della Divisione alpina Tridentina e dei reparti di supporto.

Il ritrovamento della piastrina fece pensare che il corpo di Pietro giacesse lì insieme ad altri militi noti ed ignoti, ed è il motivo per cui esiste questa tomba: una manciata tra quei resti è stata simbolicamente traslata nel 1998 nella sua terra natale.

Pietro in realtà era caduto nelle mani dei russi tra il 16 e il 17 gennaio 1943 in una zona tra Podgornje e Olikovatka. Da prigioniero di guerra Pietro scompare nella steppa russa inghiottito dalla neve e inquadrato dentro ad una massa enorme di disperati, sempre con la stessa divisa, scortati lentamente all’interno dell’Unione Sovietica da un pugno di soldati russi male armati, caricati sui treni, costretti a marce forzate a -30°, a soste e smistamenti in campi di prigionia dalle condizioni disumane, in assenza totale di cibo. Pochissimi ce la fanno, incalcolabile il numero di morti, decine di migliaia, ma tra questi non c’è Pietro.

Pietro sopravvive e ricompare nei registri della burocrazia sovietica il 1 settembre 1943, nel lager n.68 di Shagolsk, al confine col Kazakhstan; ha percorso chissà come 1.800 km in 8 mesi dal luogo della sua cattura. A Shagolsk Pietro Morandi viene registrato con dovizia di particolari, viene aperto un fascicolo a suo nome dove sono riportate le sue generalità; nell’ultima pagina, infondo, Pietro lo firma per conoscenza, la firma è piccola, ma la mano è ferma, si potrebbe dire determinata a sopravvivere ancora un po’. In realtà Pietro è malato, già da febbraio ha contratto il tifo, è fortemente denutrito, i polmoni sono compromessi, il cuore affaticato.

Dal 3 gennaio 1944 viene trasferito all’Ospedale speciale n.4564 a Kokand, in Uzbekistan, a circa 2.400 km di distanza, dove arriva 3 giorni dopo, compiendo una breve sosta a circa metà strada nel lager n.29 di Patka-Aral. All’arrivo a Kokand Pietro ha febbre già da 20 giorni, gonfiori alle gambe e in volto, forte diarrea e dolore al fianco destro dove il polmone sta cominciando a collassare a causa di una tubercolosi contratta chissà quanto tempo prima. Le sue condizioni vengono a questo punto monitorate giornalmente, la temperatura corporea misurata mattina e sera: a quanto risulta dalla cartella clinica sono tentate alcune cure, sebbene inutili in assenza di antibiotici.

Dal giorno dopo il suo arrivo, il 7 gennaio, il suo stato è definito già grave dal medico di guardia, mentre col passare dei giorni il cuore rallenta inesorabilmente il suo battito, il polmone destro perde completamente la sua funzionalità e mentre cede anche il sinistro subentrano ulteriori complicazioni.

Pietro combatte la sua ultima battaglia per altri 48 giorni con la tempra e il fisico di un ragazzo di vent’anni della ruvida campagna toscana ma il 24 febbraio 1944, alle 2 del mattino il suo cuore cede. Il suo corpo venne sepolto nel cimitero militare russo di Kokand, una croce di legno sopra il cumulo di terra indicava la sua tomba. Lo scorrere del tempo per Pietro si è fermato all’età di 21 anni consegnandolo alla memoria non più come “il romano”, ma come “l’alpino”, per sempre.

La verità su tutti i prigionieri di guerra in Russia, cominciò a venire alla luce solo nel 1992 con la desecretazione degli archivi militari sovietici. Fino ad allora nessuno in Italia sapeva quale fine avessero fatto circa 44.000 uomini, o per meglio dire ragazzi, partiti per la Russia nel luglio 1942, fatti prigionieri quello stesso inverno e mai più tornati. La verità su Pietro in parte si completa oggi, a 100 anni dalla sua nascita.

Firenze 27/11/2022 , il pronipote Lorenzo

RINGRAZIAMENTI: 
• U.N.I.R.R.
• Archivio dell’Ufficio Storico della Difesa
• Associazione “Memoriali di guerra” di Mosca
• Centro studi A.N.A.
• Onorcaduti
• Un grazie speciale a Irma Oboladze